William Elliott Whitmore sta lontano dai riflettori e dai giri dei folk singers alla moda. Il suo inno alla campagna ha radici profonde che arrivano fino al delta del Mississippi, la Mesopotamia della musica contemporanea.

Trentatré anni, bianco e con la voce da nero, vive da sempre nella fattoria dello zio, che aiuta nel portare avanti tutte le attività.

William Elliott Whitmore, Field Songs

Field Songs non si sottrae all’equazione stilistica fin qui elaborata, un country-blues tanto elementare quanto viscerale che trafigge la carne. Melodie e parole che osannano la vita rurale (Field Song), il saper-far-da-se (Don’t Need It) o canti funebri di una natura deturpata che pulsa nei ricordi di chi l’ha vissuta (Everything Gets Gone). C’è amarezza, tuttavia un ottimismo di fondo apre varchi tra le nubi.

Non è la sua opera più ispirata, per quello vi rimando ai bellissimi Ashes To Dust e Animals In The Dark, ma se lo ignorate, lo spirito di Robert Johnson vi punzecchierà le chiappe nel sonno. Vi ho avvertiti.

(anti records, 2011)

bury your burdens in the ground | field song | don’t need it | everything gets gone | let’s do something impossible | get there from here | we’ll carry on | not feeling any pain