Con un acrobatico salto da quaglia ho dribblato l’aggiornamento di domenica scorsa. Pasqua. So che non ti sono mancato, puoi anche sfilarti di dosso quella mascherina disinteressata. Ma l’ho fatto per te, mio/ giovane lettore o lettrice. Stavi di certo con le chiappe assise in una delle sontuose sedie che orlavano la ricca tavola che celebrava il consueto colpo di scena evangelico. Quanti rimasugli di carne d’agnello ti sono rimasti impigliati tra i denti? Fa’ vedere? Sorridi? Bravo/a, hai usato gli stuzzicadenti.

Comunque, questa mattanza annuale mi fa davvero cagare. Trucidare in massa tanti ovini innocui per simulare il sacrificio del servo di Dio che va al macello come un agnello. Usanze millenarie (l’immagine dell’agnello viene dai sacrifici ebraici pre-cristiani) e iconografie a parte, ma non sarebbe l’ora di smetterla di sventrare tanti piccoli ammassi lanugginosi e belanti per queste cose? Non bastano già gli aberranti allevamenti intensivi a rendere disumano il consumo di carne? E parlo da non-vegetariano, però ho anche io una morale, sai.

Tipo, anziché l’agnello, la Pasqua non potrebbe essere il sacrificio della Barbabietola di Dio? Magari la Barbabietola da Zucchero, quel misterioso vegetale di cui sono ricchi i paesi descritti nei libri di geografia delle medie ma che mai nessuno ha osato guardare negli occhi, figuriamoci conoscerne l’anatomia. Un perfetto mistero della fede geografica e agricola. Di cosa si nutrirà mai la Barbabietola da Zucchero? Di plancton alato? Di faine coi fanali catarifrangenti? Di croccanti coccodrilli in crosta di criniera di crotalo? Di bambini fascisti? Che strano organismo dev’essere la Barbabietola da Zucchero. Chissà se è stata salvata anche lei da Noé durante il leggendario diluvio. Oppure è una divinità sumera ereditata dagli alieni. Quanta Barbabietola da Zucchero c’è nel mondo che potrebbe schiattare senza batter ciglio? Anzi, volontariamente. Si offrirebbero loro stesse al patibolo, consce di essere troppe, di produrre un sovraffollamento mondiale di Barbabietole da Zucchero. L’umanità potrebbe essere sopraffatta dalla proliferante schiera di B. d. Z. In virtù di questa costatazione, l’anno prossimo propongo che venga celebrato il sacrificio della Barbabietola da Zucchero di Dio. Non me ne voglia Gesù, tanto lui risorge sempre, è un finale scontato.

Molto bene, mio caro hipster mangialattugalessa. In verità, in verità ti dico che dovevo partire con un altro discorso, ma ogni volta ingrano la quarta e la mia mente deraglia come un asino senza senso dell’orientamento, apro finestre su finestre nei miei monologhi fluenti, zigzagando come tra tante viuzze. Una strada di pensiero principale con tante stradine laterali di subpensieri. Come quel quadro di Paul Klee.

Ero partito con l’intenzione di rivelarti che a Pasqua non ho aggiornato perché: a – informazione già nota) la sazietà imperante avrebbe fatto sboccare chiunque al sol pensiero di aprire una pagina in cui si parla ancora di cibo; b – informazione nuova) mi sono mantenuto leggero e sono rimasto tappato in casa, pasquetta compresa. La mia linea ne ha giovato. E anche qualcos’altro. Non pensare male, scostumato/a.

Rinchiuso volontariamente in casa, declinato ogni invito per scampagnate avvinazzanti – i miei cari colleghi di ufficio hanno compreso – mi sono dato ad altri passatempi. È queste che ne ha giovato, la mia cultura.

Ho finito, non senza fatiche, di leggere il Deserto dei Tartari di Buzzati. Inquietante ma, lo ammetto, uno dei romanzi che più mi hanno fatto riflettere sull’importanza del tempo e di quanto se ne sprechi, spesso (sempre?) per nostra cosciente volontà. La guerra tanto attesa che non arriva mai ha lo stesso aspetto grottesco di immenso nulla del Beckett di Aspettando Godot. Mi ha colpito come Buzzati abbia mantenuto lo stesso metodo usato dagli scrittori di racconti brevi, ovvero chiudendo la storia all’ultima frase. Di solito, le ultime pagine dei romanzi non sono altro che superflue code, strascichi di una storia ormai esaurita un paio di capitoli prima. Qui no, anzi, tutto si capovolge nell’ultima frase. Addirittura all’ultima parola. Grazie mille, Dino.

Archiviato il Deserto dei Tartari, tra le 120 000 altre letture che affronto a singhiozzo nei coriandoli di tempo libero che mi turbinano davanti gli occhi, ho fatto il mio ingresso in Comma 22 di Joseph Heller che s’è guadagnato subito le mie simpatie. Stava nello scaffale dei libri non letti da oltre 2 anni. C’è quindi speranza anche per i restanti 60 e passa titoli che ho comprato e che non ho ancora aperto.

Letture a parte, ho ascoltato un mucchio di musica nuova durante il ponte paquale. Oltre a fare il babbione dilettante tentando di scrivere di cucina, da analfabeta culinario quale sono, scrivo anche di musica. Da 7 anni, anche se di recente ho abbassato drasticamente le dosi. Martedì scorso Il Cibicida, una delle due webzine per cui collaboro (l’altra è l’altrettanto decennale Taxi-driver) ha compiuto 10 anni. Tanti auguri cibicidici!

Tanta musica nuova scoprii nei tra le intercapedini della Rete, e quindi eccoti una breve lista di consigli, alcuni magari finiranno nel mio blogghe musicale parallelo.

I Mars Volta non sono una scoperta di oggi, ma il loro ritorno mi ha sorpreso. Stavo già affilando la scure per spiccare la testa dal collo dei due Zavala-Rodriguez, reduci da un filotto di dischi nauseabondi. Le mie aspettative avevano l’elettroencefalogramma piatto. Anzi no, concavo. Ma Noctourniquet mi ha spiazzato. Alcune belle melodie, brani più compressi, meno digressioni superflue, strutture più definite, idee più a fuoco. Qualcosa mi ha ricordato il primo album, quel De-loused In The Comatorium che ancora oggi fa la sua porca figura. E poi Aegis è davvero un gran bel pezzo.

Poi ho beccato un gruzzolo di dischi che mi sono perso negli ultimi due anni, con alcune piacevoli sorprese:

The October Game, Wildblood: ricordano i Fleet Foxes, ma la malinconia è figlia dei Radiohead. Il cantante sfodera ottime melodie, ma sono gli arrangiamenti che fanno la differenza. Occhio alla traccia numero 5, l’emozionante Boxing Underwater. Quest’anno dovrebbe uscire il secondo album.

Departures, Departures: introvabili se non su Bandcamp, eterei e cinematografici, forgiano un jazz spettrale e soffuso con rimandi al post-rock cameristico dei Rachel’s. Una chicca per appassionati.

Low Roar, Low Roar: me l’ero perso l’anno scorso. Ma mi sa che un po’ tutta la critica musicale italiana se l’è perso. Progetto il cui unico intestatario è Ryan Karazija, questo esordio è un tristissimo e immaginifico affresco che segue le scie di fumo cristallino lasciate dai Sigur Ròs sul mare che circonda la sempre fertile Islanda.

Bloody Knives, Blood: il disco esce a giugno, ma ne ho ascoltato alcuni scampoli. Immagina gli Jesu di Justin Broadrick che si fanno pestare a botte dai Butthole Surfers, strafatti con una pera di Joy Division e Bauhaus. Tanti saluti.

Clark, Iradelphic: non strabilia eppure colpisce, il caro buon Clark. Non è sui livelli sopraffini di Totems Flare, ma quest’esperimento a metà tra psych-kraut ed electro-hipsteria m’aggrada. Poi c’è Martina Topley Bird ospite in un brano. Applausi.

Per il filone Violenza & Martellate Sui Timpani, De Vermis Mysteriis, il nuovo degli High On Fire, sbudella le masse come si deve. Con Koloss dei Meshuggah, è fino a oggi la prova metalloide più convincente del 2012. Poi un mio amico m’ha fatto scoprire sti ceffi, gli Atlas Moth: suonano doom-sludge con qualche punta di stoner, tipo Yob e Candlemass. Roba figa, il disco è dell’anno scorso.

E poi? Ah be’, poi c’è un ritorno all’adolescenza.
Sono 2 settimane che il video viene caricato su YouTube e dopo qualche giorno rimosso. Il primo singolo da 16 anni a questa parte dei ricostituiti Soundgarden è Live To Rise, fa parte della colonna sonora del film supereoico Avengers, ma è anche l’antipasto dell’imminente nuovo disco. Come da copione, la canzone è deprecabile: riffettino che tenta di riesumare un po’ del calore di Down On The Upside, versi pop-eggianti con chitarra acustica a sostenere un Chris Cornell ormai senza più idee decenti da “Euphoria Morning” e un ritornello che, se fosse stato nelle mani degli Alter Bridge (grandi campioni di insipienza artistica), sarebbe diventato qualcosa di stellare. Forse. Dei Soundgarden che ricordo, quelli che mi hanno svezzato, riemerge solo una sbiadita ombra con la fiammeggiante chitarra di Kim Thayil nel ricamo solista finale. Fine. C’era da attendersi una schifezza di questo calibro e non oso immaginare il restante materiale.

Uscirà l’album e pioverà cacca da ogni parte, un diluvio di insulti unanimi all’indirizzo di una delle reunion più imbarazzanti, dubbie e superflue degli ultimi 20 anni.

Gran testo, quello di Live To Rise: like the sun, we will live to rise, starnazza Cornell nel refrain. Non c’è più niente da dire, hai ragione Cristoforo Cornelio. Non ti si chiede un guizzo di genio melodico, ma almeno testi meno banali che celino l’insulsaggine da te ormai raggiunta da un bel pezzo a oggi, no? Di tempo libero ne hai, mica devi stare come me 8 ore al giorno in ufficio. La tua opera di riverniciatura da decaduto quale sei finirà in uno stagno pieno di rospi che ti gracideranno sulla fronte. Non saranno i capelli lunghi alla Jesus Christ Pose o la barba stoner a rinobilitarti. Dopo esserti atteggiato a Justin Timberlake alla bocciofila a 40 anni suonati con quella merda supersonica di Scream, Anno Domini 2009, questa reunion è una patetica farsa che non farà dimenticare lo schifo. Anche perché si prospettano clisteri acustici, più che nuove canzoni.

Infame Cristopher Donald. Ora tu e i tuoi compagnetti venite a razzolare la grana tra noi, piccoli nostalgici di un’epoca che ci ha solcato l’anima e la vita intera e di cui siamo orribilmente orfani. Menomale che circola ancora a piede libero la voce alla corteccia affumicata di Mark Lanegan. Mi domando che mondo dimmerda sarebbe senza di lui. In mano a gente come Michel Telò, alla fanghiglia indie-tronica da quattro soldi, a Lana del Rey, alla paccottiglia schifosa italiota, vedi ultimi Teatro degli Orrori, i Cani, Lo Stato Sociale, Le Luci della Centrale Elettrica. Santa Madonna, quanto schifo c’è in giro. Lanegan, grazie, tu risollevi le sorti del cantautorato e il morale di chi è cresciuto a pane e Seattle.

Dicevo, Cornelio bastardo. Però quei 70 euro per venire a vedere te e il resto della truppa il 4 giugno prossimo qui a Milano, giuro che mi tentano. Forse perché ci sono pure Refused, At The Drive-In e Afghan Whigs? Non credo.

E mentre il 5 aprile tutti erano a capo chino a piangere Kurt Cobain, be’, io ho personalmente ricordato che 10 anni prima ci lasciava le penne Layne Staley. Non dico altro, altrimenti piango, cristo.

Tornando a noi, guarda, caro Cristoforo Donaldo Cornelio, non voglio più pensarci a sta storia del tuo ritorno rockerrollo sulle scene. Mi prudono le ascelle e non perché non mi lavo. Perché mi lavo. È perché mi repelli, dio santo. Non voglio più pensare a te e a quegli altri beccamorti soundgardeniani, per questo adesso mi metto ai fornelli e mi rilasso.

Sospiro. La ricetta di questa settimana.

Ti avverto, mio/a docile lettore o lettriche che tu sia, a seconda che i tuoi cromosomi siano XY o XX, oggi ricettina impegnativa.

Un dì vagavo pe’i corridoi fluorescenti del supermercato e vidi una confezione trasparente con dei cosi giganti serrati dentro. Mi avvicinai e fu amore a primo avvicinamento. Erano dei conchiglioni di grano duro trafilati al bronzo. Da quel momento divennero miei cari alleati quando mi va di riempire della pasta per poi farle fare una bella gita abbronzante in forno. Sono pure ottimi quando voglio fare il figo coi miei ospiti. Tàc.

Ho già provato diverse ricette, quella di sta settimana vede protagonisti un crostaceo e un vegetale.

Siòre e siòri: Conchiglioni al gratìn.

Con mazzancolle e asparagi.

Clap clap clap.

Piatto di mia mentale creazione, le materie prime da impiegare per soddisfare 4 palati sono:

– 16 conchiglioni giganti (una confezione di pasta ruvida trafilata al bronzo)
– 300 gr di mazzancolle (ma se li trovi a buon prezzo, tanto meglio i gamberi)

– 250 gr di asparagi
– 100 gr di stracchino

Do il via alle operazioni con la più rognosa e seccante: pulire le mazzancolle.
Premessa: partito per comprare dei gamberi con la G maiuscola, mi esplodono le retine non appena avvisto il prezzo sul cartellino del banco pesce: 44 euro al chilo. Tanti saluti. Ripiego sulle mazzancolle, non strepitose e tra l’altro esemplari decongelati e precotti che vengono da chissà quale oscuro anfratto del globo. Il prezzo è ragionevole, e dico al solerte pescivendolo: “mi dia un po’ di mazzancolle”. Ok la selezione delle materie prime, ma pagali tu 15 euro per 300 grammi di gamberi rossi. Alzo il dito medio e fuggo via.

Avendo a che fare con dei decapodi freschi ma già precotti, l’operazione-pulizia è semplice e complessa nello stesso tempo.
Semplice: il carapace viene via con facilità, così come la testa (che, vorrei ricordarti, è la parte più ricca e succosa perchè contiene praticamente tutti gli organi vitali del pesciolino).
Complessa: l’estrazione del budellino grigio che attraversa l’intero addome, da togliere con uno stuzzicadenti perché amarognolo, è un po’ più difficile con quelle mazzancolle che, più che precotte sono già cotte. Rischio di sfaldarne alcune, ma limito i danni al minimo sindacale. Cioè un cazzo.

Separo le teste delle mazzancolle perché mi servono per il brodo. A sua volta il brodo richiede qualcos’altro.

Non mi va di impiegare una béchamel, per quanto leggera possa renderla. Preferisco esaltare il sapore del pesce, ragion per cui costruisco una vellutata alle mazzancolle. Ecco che entra in scena il brodo.

Per la vellutata, ho bisogno di:

Brodo

– 1,5 litri d’acqua (si andrà riducendo parecchio, meglio abbondare)
– 1 gambo di sedano
– ½ cipolla bianca
– alcuni ciuffi di erba cipollina
– le teste delle mazzancolle pulite

Vellutata

– 80 cl del brodo ottenuto
– 60 gr di farina
– 60 gr di burro
– un pizzico di noce moscata
– sale
– pepe nero

Riempio una pentola capiente con un litro e mezzo di acqua di rubinetto, perché il calcare nei reni non è mai troppo, metto sul fuoco e porto a bollore per poi scagliarci dentro il sedano, la cipolla, l’erba cipollina e, udite udite, le teste delle mazzancolle. Saranno loro a insaporire la brodaglia. Soliti tempi, 45 minutie la pozione di Merlino Mazzancollino è pronta.

In the meantime, li accarezzo e ne decanto la bontà: gli asparagi sono tra noi.

– La sapienza di SuorGerMarco: devi sapere che l’asparago è originario del Medio Oriente, così come una valanga di roba che ingurgiti quotidianamente. È una pianta della famiglia delle Liliacee (di cui fa parte anche il tulipano, ad esempio) con steli sottili da cui si dipartono tanti piccoli aghetti. Ma la fiorescenza non ci interessa, perché noi umani ci cibiamo dei boccioli, i turioni. Ricco di vitamina A, B, C, potassio, calcio, ha elevate proprietà diuretiche per la presenza dell’acido urico, che ti fa fare tanta di quell’urina all’aroma d’asparago che ti vergogni quasi ad essere stato tu ad averla secreta e che non lascerà scampo a chi entrerà subito dopo di te alla toilette pubblica.

Preferisco gli asparagi verdi, più ricchi di clorofilla, a quelli bianchi, a mio avviso dal sapore insignificante. Visto che mi piacciono tanto, li cucino.

Li pulisco, elimino la parte inferiore più dura e li sbollento in acqua non salata per circa 6 minuti. La norma vuole che si leghino gli asparagi con dello spago da cucina immergendoli in piedi, risparmiando le punte – facili da rovinarsi – che vanno cotte col vapore. Io lo spago non ce l’ho, consapevole, corro il rischio di disfacimento. Ciò avviene solo parzialmente.

In virtù della mia dimensione da Uomo Senza Tonno Multitasking, mentre il brodo e lì lì per giungere al traguardo, scotto le mazzancolle pulite in una padella con poco olio e meno di mezzo bicchiere di vino bianco. Giusto il tempo di far evaporare l’alcol, non oltre un minuto e mezzo altrimenti i pesciuzzi assumono la consistenza delle suole delle scarpe. Mantenerli teneri è un obbligo morale. Tolgo dal fuoco e taglio a tocchetti non troppo piccoli.

Una volta sbollentati, asciugo gli asparagi, taglio anch’essi a pezzi e li salto con indomita energia e immensa benevolenza in una padella capace di contenerli. Olio, mezzo bicchiere di vino bianco e pepe li aiuteranno a sviluppare un sapore intenso e amabile.

Sfrigolanti e profumosi, gli asparagi fanno una sosta nel loro lungo viaggio attraverso 3 cotture diverse (la prossima indovina qual è?). Tolti dal fuoco, infatti, li unisco le mazzancolle e aggiusto di sale. Metto da parte, lasciando riposare un po’.

Oh, il brodo è pronto. Con una bellissima chinoise, lo filtro, eliminando così il cimitero di teste galleggianti, nonché le antenne e tutte le altre schifezzuole.

Ok, non è come sembra. Anziché dirigere i tuoi pensieri verso quella-cosa-lì, pensa a una goduriosa birra al frumento dalle pastose note al miele. È il miglior parallelo mentale che tu possa fare. T’ho fregato, profumo di mazzancolle assicurato.

È giunta l’ora della vellutata, che preparo col medesimo procedimento della béchamel, ma col brodo al posto del latte.

Preparo un roux con burro fuso e farina, amalgamo e verso il brodo. Mescolo in senso orario con una frusta per evitare i grumi finché non raggiungo la densità che mi serve. Aggiusto con sale e poca noce moscata grattugiata. La assaggio: delicata come un calice di cristallo.

La vellutata è ancora fumante, la verso nella mia consueta e sfigata insalatiera rossa anni 70-vintage-divano-monocromatico-di-mia-zia-zitella e gli schiaffo lui: lo stracchino.

Perché lo stracchino? Perché il rischio di ottenere un piatto troppo inconsistente mi ha fatto venire un grappolo di paranoie che mi penzola dalla tempia. No, non per questo, ma è puro gusto personale. Un tocco latteo, che con lo stracchino tendente all’acido, lo trovo adatto. Anche perché stracchino e asparagi convivono in armonia come Stanlio e Olio prima di mandarsi vicendevolmente affanculo.

completo la faccenda-farcia aggiungendo gli asparagi e le mazzancolle, ottenendo un ditirambo pindarico. Boh?

Di solito, i conchiglioni di grano duro hanno la forma di una conchiglia di mare, appunto, con una fessura che la percorre da una punta a all’altra, molto simile alla conchiglia monetaria.
Questi conchiglioni qui no, come ben vedi, dato che hanno due fori d’ingresso, di cui quello circolare e più largo da usare per la farcitura.

Altra operazione, altra pentola. Altra acqua condotta a ebollizione con aggiunta di sale grosso, e splash, splosh, sflung, immergo i conchiglioni tra le bollicine, alcune prodotte dall’aria che vortica nel breve corridoio di grano duro al loro interno. 10 minuti di cottura, non di più, per tenerli al dentissimo e far sì che non si rompano quando dovrò farcirli.

Scolo i conchiglioni e mi dedico alla parte più divertente di tutto l’ambaradàn. Riempirli.
Mi armo con un ferocissimo cucchiaino, che di norma uso al mattino per degustare uno yogurt probiotico o per far sprofondare dello zucchero di canna nella schiumetta del caffè, sempre quando colazioneggio. Il cucchiaino affonda nella crema che ho fin qui composto, ne solleva gocce iperuraniche e infilza l’infingardo conchiglione, farcendolo come se fosse un tacchino nel giorno del Ringraziamento.

La dolce operazione di riempimento si compie per ognuno dei monumenti concavi di grano duro con cui ho a che fare. Man mano che procedo, dispongo i conchiglioni pronti in una teglia con carta forno in cui ho creato un piccolo fondo con un mestolo di vellutata.

Riempita tutta la pasta, la ricopro con la crema rimasta, spolverizzo col pangrattato e, leggiadro, sospingo il tutto in forno, deponendoli lì, i conchiglioni ripieni, per 20 minuti a 200 gradi centigradi. Au revoir.

In principio, la prova assaggio mi lascia perplesso. Il conchiglione predato dalla mia forchetta è ancora troppo caldo, non distinguo i sapori, tutto sembra insignificante. Demoralizzato, lascio raffreddare per qualche minuto. Intiepidito e intimorito, il conchiglione si lascia afferrare di nuovo: stavolta emergono le sfumature dell’insieme. Nonostante la presenza dello stracchino che ha dato corpo alla vellutata, la crema ha mantenuto quasi intatta la delicatezza. Alle mazzancolle, che per fortuna non si sono gommizzate, il vino ha fatto bene, se ne rintracciano le note (ed è un vino cartoncino da cucina a meno di un euro). Anche gli asparagi sono vispi, lievemente disfatti, ma carnosi al punto giusto, con i consueti rintocchi terrosi a levigare il predominante gusto di gambero dell’insieme.

Mi applaudo persino coi capezzoli. Missione computer.

Il Disconsiglio: di consigli musicali, quest’oggi te ne ho rifilati parecchi, ma sono magnanimo. Come un vino bianco leggermente mosso, ci vuole un disco elegante ma con scatti che animino il timpano:Stateless, Stateless, annata 2007.