Quando non ce l’ho ma ho voglia di mal di testa, leggo Wittgenstein. Apro a caso Ricerche Filosofiche e mi immergo in uno, due paragrafi. Li rileggo due, tre, quattro volte. Capovolgo il libro, parto dall’ultima lettera per risalire la corrente fino alla prima, metto la pagina in controluce. Non capisco. E mi stordisco, lasciandomi trascinare dalle labintiche elucubrazioni del buon Ludovico. I suoi quesiti sulla lingua mi affascinano, ma sono badilate sulle tempie. Gironzolo con le mie ciabattine mentali intorno alle miriadi di domande sul problema in oggetto, osservato e scandagliato centimetro per centimetro, poi mi siedo sulla mia poltroncina rivestita di meningi e inizio a strapparmi le palpebre con una tenaglia da idraulico. E della roba grigiastra mi cola dalle narici.

Oggi sono piombato sul paragrafo 389 e mi spingo fino al 396 perché sono curioso di vedere dove Ludovico vuole arrivare. Sta parlando della fedeltà della rappresentazione mentale che un individuo crea nella sua mente riguardo un oggetto. Riuscirà mai l’idea dell’individuo a descrivere l’oggetto reale senza risultare fedifraga? Ludovico si spinge persino in uno slancio di empatia tirando in ballo il dolore che le persone che incontra per strada possono provare, ma si chiede se il loro corpo riesce a rappresentarlo, questo dolore. Ludovico parte in quarta con la sua sfilza di domande che si avvinghiano al problema, gira e rigira la faccenda come un cubo di Rubik.

Ludovico mi ammazza coi suoi soliloqui.

C’è tutta un matassa sull’immaginare senza pensare, sul che cosa si immagina e cosa accade quando lo si immagina, Ludovico si domanda cosa immagina quando immagina. L’unica cosa che riesce ad appurare è che nell’immaginabilità della sua indagine sussiste confusione, perché non assicura il senso di una proposizione.

Giuro, lo leggo e mi viene l’asma. Mi cadono i denti, neanche fossi un fumatore di crack.

È vero che, ritagliato e smontato così come lo sto presentando adesso, è un groviglio sinaptico. Ma non ti credere, oh te che leggi, che avere la sequenza del libro davanti faciliti l’impresa della comprensione.

Tutti sti girotondi mentali ti fanno andare fuori di melone, Ludovico. È per questo che molti Logici fanno spesso una brutta fine. Impazziscono. Vivisezionano la realtà fino ai quark, fiutano le minuzie, sbirciano tra le cartilagini dei dettagli, scoperchiano scatole cerebrali che poi gonfiano come dei soufflé. Poi il soufflé esplode. Squash! Robe da emicranie talmente forti e brutali che poi solo la punta di un trapano che fa i suoi begli avvitamenti nella tempia può risolvere.

Ci sono nodi gordiani che non possono essere sciolti, quindi ci si può anche accontentare di una buona dose di istinto e ignoranza, di inconoscibilità delle cose per mantenere vivo lo stupore di vivere, non trovi tu che stai leggendo questo mio personalissimo e pacchiano tentativo di filosofeggio esistenzialista?

Forse, se non avesse avuto una mente tanto analitica e minuziosa, il sommo David Foster Wallace sarebbe ancora tra noi. Azzardo l’ipotesi.

Sto andando troppo in là e non sono divertente.

Ohssignore, questo è un blog di cucina. Adesso ricordo. Dovrei scrivere la ricetta di questa settimana.

Torno al punto di partenza. Il mal di testa.

La rifaccio, ma con variazione.

Quando non ho mal di testa e ne ho voglia, ma non voglio leggere Wittgenstein perché non mi va di tramutarmi in un logico-aspirante-suicida, penso a una ricetta. Me la invento. E adopero più o meno gli stessi procedimenti mentali del buon Ludovico, coi dovuti distinguo d’intelligenza.

Immagino il piatto. Ne scompongo gli ingredienti. Cerco le relazioni aromatiche e di sapore che li possano tenere legati. Oppure, prima di giungere alla ricetta finale, la costruisco mentalmente come un mosaico partendo da un ingrediente singolo e aggregando gli altri, sempre però tenendo conto della catena di sfumature di sapore. È lì che si gioca la partita.

Per studiare sto piatto ci ho messo un po’, nonostante alla fine penserai che è una gran stronzata, non c’è niente di difficile e rivoluzionario e che gli abbinamenti, invero, non sono poi così arditi. In effetti, potresti aver ragione.

Ci ho messo un po’ perché ho cambiato il piano di partenza. In principio dovevano essere coinvolti dei giovani fiori di zucca. Vado baldanzoso al supermercato, zigzago qua e là con lo sguardo nello scaffalino delle insalatine ma non li vedo. Ok, non è ancora stagione, ma li avevo visti la settimana scorsa, non ce ne sono più? No, se venivi stamattina ne avevo ancora due vaschette, dice l’addetto del reparto dalla cadenza sicula. Grazie Ciccio, penso, stamattina stavo in ufficio, ri penso, Ma arrivano? chiedo, Non so, li ho ordinati, dovrebbero arrivare, dice lui con l’aria di uno-che-ne-sa. VOk Ciccio, fottiti e sciogliti nell’acido, penso, Grazie mille, dico con cortesia posticcia, Figurati, risponde lui facendosi i cazzi suoi. Ognuno va poi per la sua strada, coi angoscianti flussi di coscienza, lui a creare coreografie di verdurine e ravanelli appetibili per l’occhio del consumatore, io a vagare per l’ortofrutta del supermercato rielaborando la ricetta e col mal di testa pulsante. Una compressa? No, grazie, non prendo medicinali.

Quindi il mio iniziale mosaico ha perso un tassello.

Penso che: se rosolo Questo Ingrediente con Quell’Altro ottengo questo preciso sapore, quindi mi serve qualcosa che si leghi. Ma se poi creo questa sorta di sugo che poi non è un sugo ma è una crema, come faccio a tenere insieme tutto? Ci infilo il formaggio, mi suggerisce il gufo immaginario appollaiato su un ramo che sporge dalla mia calotta cranica.

Avvisto degli asparagi. 7 euro e 58 centesimi al mazzo. Annoto il prezzo sul fedelissimo taccuino senza cui non metto la barba fuori dalla porta di casa, perché poi voglio riscriverlo con precisione nel post del blog che sto adesso scrivendo e che tu ora stai leggendo. Maggesù, 7 euro e 58 centesimi per un mazzo di asparagi da 300 grammi che tra l’altro è puro veleno perché merda di serra, dato che gli asparagi li beccherò tra uno-due mesi? Fuori stagione, spacciati come primizie. Le primizie di questo paio di gonadi, brutti culetti in brodo che non siete altro, voi del supermercato. Mentre sono crudi e quindi belli barzotti, introduceteveli nell’ano, cari signori del supermercato, pensiamo io e il gufo immaginario.

Ripiego quindi verso ben più economici e facilmente conservabili asparagi surgelati, che costano meno della metà del tentato furto a cartellino armato la Gran Loggia del Supermercato voleva perpetrare nei confronti del mio magro portafogli.

Ah, volevo dirti che questa settimana ho trovato 100 euro a terra. Era dai tempi della Lira che non trovavo banconote sul marciapiede. Rosica, lettore o lettrice che tu sia.

Come sempre la sto tirando per le lunghe. Due pagine e mezzo di foglio OpenOffice e non ho ancora detto nulla di utile per il pubblico a casa.

Entro nella carne viva del post di questa settimana. Ma è una ricetta senza carne, oh tu vegetariano/a alla lettura.

Ricetta autografa del sottoscritto Uomo Senza Tonno:

Maccheroni alla chitarra

con

ragù

giallo.

Sì.

Per una sola bocca da sfamare, ovvero la mia, l’ingredientume, dapprima pensato, poi acquistato e infine coinvolto materialmente nella vicenda, è:

– 80 g di maccheroni alla chitarra
– 70 g di asparagi surgelati
– 90 g di misto funghi surgelati
– un rametto di rosmarino
– un po’ di scalogno
– ½ bicchiere di brandy scarso come la morte
– 200 ml di panna da cucina
– 70 gr di Maasdamer
– una bustina di zafferano in polvere
– olio
– sale
– pepe nero macinato

Procedo.

Estraggo dal pacco di cartoncino e poi dall’involucro di plastica con tanti cristalli d’acqua ghiacciata sopra,tanti asparagi fino ad arrivare a 70 grammi, come riportato nell’elenco puntato sopra. Li lascio scongelare per 20 minuti, mentre in una pentola porto a ebollizione acqua leggermente salata.

Tuffo gli asparagi nella suddetta Acqua-due-O e li lesso per 6 minuti, giusto il tempo di ammorbidirli, ma non sfaldarli. Annota: Non Sfaldarli.

Li tiro fuori dalla pentola con l’aiuto della mia inserviente metallica schiumarola e li lascio raffreddare per qualche minuto dopo averli passati sotto un getto di acqua fredda. In teoria sarebbe bene che li immergessi in una bacinella con acqua e ghiaccio per arrestare del tutto la cottura e mantenere vivo il colore, ma dato che dovranno passare dalla pentola alla padella, me ne strafotto di questa cosa e mi basta raffreddarli così. Devo tagliarli a tocchetti, non voglio ustionarmi maneggiandoli, per questo li raffreddo. Lascio l’acqua nella pentola, mi servirà tra poco.

Prima di scrivere ogni post, faccio uno schema. Giunto a questo punto, lo schema con gli appunti dice: PARLARE DEI FUNGHI.

Devo parlarti dei funghi. È raro che compri funghi freschi, per il semplice motivo che, vivendo da solo, confezioni da 250 grammi sono piuttosto scomode e mi indurrebbero a: a) mangiare funghi per tre giorni di seguito, colazione-pranzo-merenda-cena-spuntinonotturno con conseguente trasformazione del mio corpo in un Fungo Della Vita di Supermario grondante di cellulosa; b) buttare tutti quelli inutilizzati, azione che mi repelle perché odio gettare il cibo. Adesso parlo sul serio: è un atto arrogante da Uomo-Del-Benessere, un vile schiaffo morale a chi non può averne. Quando facevo il cameriere si buttavano montagne di roba, residui dai piatti e cibo non consumato andato a male. Tutto ciò mi ha sempre fatto sentire un po’ in colpa. Quindi compro il giusto per evitare di far ingrassare la pattumiera. Ora smetto di parlare sul serio.

Questo post è troppo serioso, non noti? Sono poco in forma, lo ammetto.

Compro quelli surgelati. Un misto funghi fighissimo con: prataiolo coltivato, pinarello, gelone (o orecchietta o meglio conosciuto come Pleurotus), boleto baio e il più affascinante di tutti, il messere porcino. È un bell’insieme di sapori, li uso per molte ricette. Non cito la marca, tanto chissenefrega, una vale l’altro.

Dovevo parlarti dei funghi, ma non ho detto nulla. Ho fatto delle ricerche su ognuno di questi tipi ma, ti giuro, mi rompo le palle a morte a dover riportare i miei studi sul fungo qui. Anche perché sto post sta diventando logorroico come ogni altro articolo di sto fottuto blog. Quindi bypasso, tanto ti ho già parlato dei funghi.

Trito dello scalogno a pois, riscaldo l’olio in una padella, lascio imbiondire un po’ il già menzionato scalognoe, frshhhhhh, i funghi si sbatacchiano nell’olio con tutta la brina, ancora congelati e il contatto tra olio e acqua produce lo sfrigolio che si identifica con quel frshhhhh che hai letto.

Nel talamo su cui si consuma l’amore tra funghi e olio faccio accomodare il terzo incomodo a cui piace mettere il dito tra la moglie e il marito: un rametto di rosmarino. Pianta sempreverde dalle proprietà disintossicanti e depuratrici per il fegato, il rosmarino ha quei timbri silvestri che vanno a braccetto coi funghi, soprattutto i porcini. Purtroppo l’etichetta non riporta la tipologia di rosmarino, dato che ne esistono di diverse, tutte dalle sfumature differenti e adatte per specifici abbinamenti. Questo ho e questo gli metto, mi convinco tra me e la mia barba, e procedo col getto del ramoscello nella sfrigolante fungaia, che sfumo poco dopo con mezzo bicchiere di brandy.

Il brandy: classe iper-economica e low-cost, magari non quello ributtante e disdicevole che neanche un alcolista da marciapiede tracannerebbe (ne siamo certi?), ma per cucinare la Bassa Lega va più che bene.

Non appena il brandy-guesto-zì-badrone inizia a ridursi, scaravento gli asparagi, che ho tagliato a tocchetti, nel padellone e rosolo per 15 minuti con una spolverata di pepe nero. Quando il fondo si riduce troppo, aggiungo un po’ dell’acqua di cottura degli asparagi rimasta nella pentola. Tolgo dal fuoco e aggiusto con una presa di sale.

Una volta spacchettato, taglio 70 grammi di Maasdamer a cubetti molto piccoli. Preferisco questo formaggio olandese al quasi simile e più celebre Emmenthal, troppo dolce per i miei gusti. Il Maasdamer ha un sapore altrettanto burroso e corposo che si congiunge coi timbri sia degli asparagi che dei funghi. Ci ho riflettuto parecchio prima di inserirlo nella ricetta stilando ben precisi calcoli mentali. Come Ludovico.

In un pentolino, faccio riscaldare la panna da cucina versandone l’intero brick, compresa quindi la parte più liquida, che faccio evaporare. Mantengo la fiamma media e mescolo lentamente. Cioè, mescolo lentamente solo dopo le prime due tre cucchiatate, perché, siccome sono delicato come un macellaio, all’inizio mi scappa il colpetto che fa sgusciare fuori la panna e macchia il piano cottura e mi fa, come di consueto, vilipendere qualche santo a caso. Cazzone.

Non appena ai bordi esterni cominciano a emergere i primi segni del bollore, aggiungo il formaggio. Cubetti piccoli, mi raccomando, in modo che possano sciogliersi velocemente e quindi formare una vera e propria crema con la panna, che però non deve bollire del tutto. Spengo la fiamma

Terminata l’operazione, aggiungo una bustina di zafferano in polvere che-costa-quanto-la-polvere-di-diamante.

Amalgamo fino a raggiungere un colore compatto.

Zafferano e Maasdamer, timbri dolciastri in verità, ma la spezia ha dalla sua delle note ruvide, un po’ amare, adatte ad agganciare lo sfondo terroso dei funghi e degli asparagi. Passo e chiudo.

Maccherone, che impressione. No, nessuna impressione, volevo solo una rima facile e banale.

Maccheroni alla chitarra di una nota marca che si chiama con una preposizione che indica possesso abbinata al nome di quel poeta due-trecentesco che di cognome faceva Angiolieri. Hai capito bene. L’ho presa perché era in offerta, costava qualche micromillesimodicentesimo meno del normale. Mi sono lasciato sedurre dal cartellino che informava che l’articolo è IL PREZZO PI BASSO. Mi sono eccitato quando l’ho letto.

Sono come i normali spaghetti ma con una sezione quadrata e trafilati al bronzo. Belli rugosi, trattengono sughi e creme. La prima volta che li ho mangiati sarà stato quasi 20 anni fa, in un godurioso involtino di melanzana al forno, che prima o poi riprodurrò.

Acqua in ebollizione e già salata con sale grosso, i maccheroni compiono la loro bella sguazzata finché non raggiungono lo stadio molto-al-dente che precede il pre-gengivale, al quale segue pil gengivale, che è quello molle e scotto da denuncia alla Buon Costume.

Li scolo ma senza inaridirli, un po’ d’acqua di cottura è bene tenerla dato che devo saltarli con funghi e asparagi.

Il consiglio di Suor GerMarco: 1) è bene che tu tolga il rametto di rosmarino dalla padella con funghi e asparagi prima di saltare la pasta, eliminando anche gli aghi che si sono staccati durante i tumultuosi mescolamenti della cottura: deve restare l’aroma del rosmarino, solo quello. 2) fai saltare la pasta solo con funghi e asparagi per farla impregnare degli umori dei due vegetali: se aggiungi il sughetto con la panna prima, questa tenderà a sopraffare il tono sulfureo che invece la pasta deve assorbire.

Una volta saltata la pasta a fiamma vivace, verso il sughetto, mescolo e lascio andare per qualche secondo, evitando di far asciugare. Tolgo dal fuoco.

Servo con qualche funghetto e asparago tenuto in disparte come guarnizione. Fine dei giochi.

La prova assaggio rivela la bontà dei miei calcoli. L’addizione è perfetta, arricchita dal tocco esotico dello zafferano che chiarifica i sapori bruni. Il dolciastro della panna e del formaggio è notevolmente ridotto dal colpo terroso della coppia funghi-asparagi, impreziosita dal rosmarino, che ha lasciato una scia presente ma non dominante.

In alcuni punti il porcino si attacca a pezzi di Maasdamer non del tutto sciolti: quando li incontro, faccio una piccola pressione con la lingua sul palato con in mezzo il formaggio abbarbicato sul fungo. È una dissoluzione cremosa, come se stessi attraversando una nebbia morbida della consistenza della panna montata ma filacciosa come il cotone.

Il Disconsiglio: il tono terroso dei funghi non poteva che indurmi a un abbinamento folk. Ode e gloria a un grande artista scomparso, che con la sua voce e il suo inconfondibile stile chitarristico, ha scritto pagine strepitose del folk d’autore: John Martyn, Bless The Weather, annata 1971