Quando mi lavo i denti, al mattino, già con le chiappe strette perché in ritardo per giungere incolume e senza affanni in ufficio, traguardo che taglierò solo respirando l’aria speziata da campagna di Fukushima di un corso Buenos Aires intasato di scarafaggi motorizzati, mentre mi lavo i denti, stavo dicendo, mi pongo delle domande. Oh, che evento, dirai. Però, fammi la cortesia, non chiedermene il motivo. Sarà forse la postura a testa inclinata. O il dover fissare la schiumetta del Mentadent che scoppietta accanto al foro di scarico del lavandino. Punto interrogativo. ?. ‘Cazzo ne so. Comunque, sono domande che ostacolano le normali attività biologiche che ogni essere-umano-che-non-si pone-domande compie.

L’altra mattina, una mattina indefinita di sauna casalinga pre-lavorativa con 30 gradi costanti interni al mio appartamento, in quella mattina senza nome perché non lo ricordo e in cui la doccia non è servita a nulla se non a sprecare acqua & docciaschiuma & shampoo, costatati i sudori successivi, mi sono chiesto: perché molte persone, quando pensano, si scaccolano? Non nego di aver avuto io stesso, una volta acceso il tabellone mentale di questo quesito raccapricciante, con la mano che non tiene lo spazzolino ma che mi regge al lavabo, la sinistra, l’impulso di inserire gloriosamente l’indice nella narice. Preferibilmente la sinistra, la narice. E rovistare alla ricerca di corpi estranei e ostruttivi che rendono la mia vita ben più bigia del cielo meneghino quando è velato o più che parzialmente inquinato. L’inquisizione non ha trovato alcuna risposta, anche perché il pensiero si è allargato verso quegli anziani e uomini di mezza età che, sovente nei mezzi pubblici, si intrattengono in depilazioni nasali, ma anche auricolari, staccandosi senza troppi complimenti le liane che sporgono da quegli orifizi atti all’ingresso e all’uscita dell’aria e alla percezione uditiva. Questa è la variante Depil all’annosa e affannosa domanda sullo scaccolio collettivo che da ora ignorerò.

Ho comunque stilato una breve lista di potenziali motivazioni che potrebbero esplicare la tendenza umana a infilarsi le dita nel naso con missioni escavatrici e scova terroristi, neanche fossero dei polpastrelli con aspirazioni d’arruolamento tra le teste di cuoio. Quindi: perché le persone, quando pensano (ma anche quando non pensano, obietterai tu, brutto cagacazzi), lasciano che uno o più dita si intrufolino in una delle due grotte sotto gli occhi, sperando che arpionino quelli che chiameremmo dei simpatici sassolini nasali?

  • per mantenere intatto il fascino della sorpresa, nutrendo il bambino che si stupisce per ogni cosa che è dentro tutti noi
  • perché rappresenta l’inconscio impulso umano di emulare le attività degli scarabei stercorari
  • per imitare Sisifo
  • per bearsi di aver trovato una pepita rimembrando l’epopea del Far West (tesi adatta ai Marlboro Country Men)
  • per comporre una collana di perle
  • per lasciare una traccia del proprio passaggio sulle mattonelle di un bagno pubblico
  • per dare un significato materiale alla funzione opponibile del pollice, quando l’escavazione avviene per mezzo di tale dito, ovviamente
  • per poi stringere la mano al prossimo insozzandolo e facendogli così una burla
  • perché qualcuno non può permettersi l’acquisto di canditi
  • per tentare di accarezzare il cervello, rassicurandolo e incitandolo a performance di pensiero sempre più elevate
  • per tenere le mani occupate quando si ha la testa occupata. E per evitare che le mani si intrattengano con altre parti del corpo il cui uso potrebbe indurre alla cecità
  • perché, con l’ingorgo di caccole, il fischio dell’espirazione interferisce col flusso di coscienza
  • perché è bello

O forse la gente si scaccola fingendo di pensare?

Io non lo so, ma se tu lo sai, dimmelo.

Il prologo di questo post inibisce gli appetiti, me ne rendo conto. Per tornare a stimolarli, prima di allacciarmi il grembiulino intorno alla vita, una segnalazione flash: anche in Italia attecchisce l’usanza estiva, nata negli States, di istituire una lettura collettiva, ma ognuno per i cazzi suoi, di Infinite Jest, capolavoro supremo dell’infinito genio di David Foster Wallace. Un blocco di carta da (secondo l’edizione tradotta Einaudi) 1179 pagine + 101 di note, che sono sia specificazioni su psicofarmaci o racconti nel racconto, dilatazioni narrative che moltiplicano i piani della storia, riecheggiando certi trucchetti alla Borges. È un libro per secchioni, ti avverto, scritto piccolo e fitto che se lo guardi desidereresti tornare all’analfabetismo per esibire una scusa plausibile sul fatto che non-lo-hai-ancora-letto-?. Io ho secchioneggiato nel 2010, dal 4 giugno al 6 agosto per l’esattezza, nel limbo di nullafacenza tra la laurea e la partenza definitiva per Milano dalla natia Trinacria. Non ripeterò l’esperienza perché temo sarebbe spossante, viste le troppe cose che mi ritrovo a dover fare di questi tempi. Comunque sia, l’Infinite Summer funziona così: la lettura va dal 21 giugno al 22 settembre, circa 80-90 pagine alla settimana. Sì, sei un po’ in ritardo, ma fossi in te lo farei. È un libro entusiasmante e, una volta finito, ti senti libero come se avessi cagato un ciclope mono-oculare, ma nel contempo ti domandi: e ora che cazzo potrò mai leggere di così altisonante? Hanno già aderito più di 100 persone, lo dice la pagina Facebook del gruppo su cui tu Ora Andrai. Asfidanken.

Letture per letture, dato che il Wallace me lo sono già pappato, mi sono diretto su Frédéric Beigbeder e il suo Lire 26.900, poi diventato Euro 13,89. Un copywriter che sbiella e fa il culo alla sua agenzia sputtanando i retroscena avidi e agghiaccianti dello spietato mondo pubblicitario. In certi punti, ma sono ancora all’inizio, mi ha ricordato la scrittura rapida ma artefatta di Chuck Palahniuk, quella calibrata parola per parola per rendere ogni singola frase una sorta di aforisma da mandare a memoria. Può essere irritante per te che ti piace la scrittura scorrevole e quasi nature, ma certe frasi sono coltellate alla cornea.

Sul comodino accanto al letto, tra le colonne di libri che vorrei tanto finire, c’è anche Insieme Ma Soli si Sherry Turkle, insegnante di Sociologia della Scienza al MIT di Boston e definita “l’antropologa del Cyberspazio”. È un saggio quasi allarmante sulla deriva relazionale di noi esseri umani circondati da social network e cellulari perennemente connessi a internet che non permettono di effettuare il cambio on-off line. Le relazioni umane stanno cambiando e, chi più chi meno, ci stiamo impegnando quasi inconsciamente a coltivare un’enorme solitudine collettiva. Anche qui sono ai primi capitoli, si parla di come i bambini si approcciano ai Tamagotchi e ai Furby (sì, parte da eventi della fine degli anni Novanta), ma gli scenari che mi si prospettano nelle prossime pagine avranno il sapore ombroso e forse anche un po’ paranoico tipici dei mondi alla Philip K. Dick. Ti terrò aggiornato, ma se ti intriga, compralo.

E ti segnalo anche il nuovo disco di Mike Wexler, Dispossession: Tim Buckley rivisitato secondo gli stilemi dei Can. Sono in fissa da qualche giorno, mi ricorda moltissimo il Rick Tomlinson più spirituale e ieratico. Ciao.

Come sempre mi dilungo prima di accendere i fornelli, estrarre pentole e padelle dal mobile antico in cui le conservo, impugnare coltelli in lama di ceramica e mestoli di legno, sudare nei pressi del fuoco e bestemmiare quando mi brucio.
Mio o mia caro o cara che tu sia adesso alla lettura, senza di te, oltre a essere un Uomo Senza Tonno, sarei anche un Uomo Senza Lettori. Immagina che vita traboccante di mancanze. No, non deprimerti, anzi, risolleva il tuo umore con questo bel piatto che ho creato, come di consueto, ragionando sugli abbinamenti.

Ispirato dalle peripezie dei cuochi d’alta cucina, dato che mi sto dedicando alla visione di alcuni video in materia, ho generato anch’io l’ennesima ricetta autografa di questo blogghe. Siore e siori, ecco ai vostri palati

Garganelli con crema di melanzane, caprino e cannella.

Habemus Primo Piatto.

Godete genti.

Come successo per il branzino alla cannella, so che storci il naso per la presenza del cinnamomum zeylanicum. Basta saper dosare e ogni quadro di sapori raggiunge il giusto equilibrio, dovresti saperlo.

Ok, basta preamboli da ambulatorio, scrivi su un fazzoletto sporco le seguenti dosi per i seguentiingredienti utili all’edificazione del seguente piatto, calcolati per un solo individuo, cioè io:

– 90 g di garganelli all’uovo
– 200 g di melanzane al netto della buccia
– 80 g di formaggio caprino fresco
– poco meno di un terzo di un cucchiaino di cannella
– 3 cucchiai di olio extra-svirgolato d’oliva
– uno spicchio d’aglio
– una manciata di pinoli
– sale

L’evento culinario parte col taglio a rondelle piuttosto spesse di una melanzana abbastanza spessa e gaudente riguardo il fatto di farsi sezionare senza opporre alcuna resistenza.

Mentre tengo la finestra aperta ed entra una mosca che prontamente abbatto, sbuccio le rondelle e le dispongo in uno scolapasta cospargendole di sale fino e ponendo sopra un peso per permettere l’espulsione del liquido amaro.

L’intervento saggio di SuorGermarco: non tengo la buccia perché, sbollentandola, rattrappisce e ha un pessimo effetto in bocca. So che parte del sapore della melanzana verrà cancellato, ma non ho voglia di rompermi i coglioni con bucce raggrinzite come la pelle della Montalcini. Brrrrrr.

Passata la sufficiente mezz’ora per de-amarizzare le melanzanine, non mi resta che annegarle in incandescente acqua che ha già superato la soglia dei 100°. Sbollentarle per 15 minuti mi pare cosa buona e giusta.

Terminato l’idromassaggio ustionante, scolo le melanzane e le strizzo per bene per eliminare l’acqua di cottura rimasta intrappolata tra i pigmenti di questi tocchetti ben disfatti, che poi verso in una ciotola e frullo col mio fido mini-pimer. Sì, frullare per creare una purea, è questo lo spirito di chi non ha del tonno in casa.

Verso 3 cucchiai di olio-illibato di oliva in una padella dotata di sagace rivestimento in teflon, accendo il fornello come farebbe ogni essere umano che intende riscaldare dell’olio per conduzione e gli piazzo uno spicchio d’aglio che faccio bruciare e che tolgo una volta ben bruciacchiato: mi serve per insaporire l’olio.

Con la mobilità e la prensilità delle mie docili mani, prendo la ciotola le melanzane frullate e ne rovescio il contenuto nella padella, in cui partirà un evento sfrigolante e schizzante a causa della poca ma pur sempre presente acqua della purea venuta a contatto con olio caldo. Scrsccccchhhhhhhhh. Mi brucio, ovviamente, e lancio un monitor all’umanità, come fa il Papa ogni soporifera domenica.

Introduco il caprino. È quello fresco spalmabile. Il sapore è molto forte, quasi arrogante da poter prevaricare sulle melanzane. Dai rintocchi acidi e della botta salata, ha quei sentori pungenti tipici dei formaggi a base di latte di capra. Dico solo che è adorabile. Oh oh.

Insaporisco il frullato di melanzane in padella a fiamma con altezza media per un paio di minuti, non di più altrimenti comincia ad abbrustolirsi e non va bene. 2 minuti e il caprino espiatorio espia tutti i peccati della melanzana. Immetto il formaggio e amalgamo per bene finché i due piccioncini non saranno legati.

A questo punto, ecco comparire il terzo incomodo. Tra melanzana e caprino non mettere il dino(sauro), recita l’adagio. E lei, adagia, s’adagia su un cucchiaino per lasciarsi ammirare. La giovane cannella a cavallo di una cammella, staziona lì per farsi fotografare.

Ora, nell’immaginario collettivo, quello proprio popular, la cannella è sempre associata ai dolci, così come la frutta è avulsa da piatti salati, nella norma. È vero, tra biscotti e torte, siamo abituati a intendere la cannella come spezia esclusiva per determinate preparazioni e fa un po’ ridere e un po’ ribrezzo al sol pensiero che possa insaporire un pesce o della pasta. E invece, in un contesto salato, col suo aroma quasi felpato, ammorbidisce i timbri forti, soprattutto quando sono presenti ingredienti aciduli, vedi il caprino, in questo caso. Quindi, non essere cannellafobico, ma dosa bene: per una porzione basta poco meno di un terzo di un cucchiaino da zucchero. Non esagerare che poi i sapori si disfano. Lettore avvisato.

Presentata la cannella ai due amanti, lei s’intrufola nell’idillio padellesco, rilasciando vapori dolciastri e intensi. Incorporo per bene per ottenere una crema compatta ma non troppo asciutta. Se lo ritieni opportuno, aggiusta di sale, ma la sapidità è già conferita dal caprino. Io qui evito addizioni.

Nell’acqua per la pasta ho già versato del sale grosso e ora sta per bollire, ma prima di dedicarmi anima e corpo alla pastitudine, mi dedico al pinolo. Ne prendo alcuni e li tosto in una padellina antiaderente già riscaldata. Tostali per poco, i pinoli si bruciacchiano rapidamente.

Garganello, garganello. Tu sì che sei un formato di pasta che mi stimola la secrezione salivale. Pasta all’uovo tipica dell’Emilia-Romagna, sono come le pennette, un po’ ruvide, quindi adatte a trattenere addosso la crema. O anche ad accoglierla nel tunnel di cui dispongono.

Cuocio la pasta per 6 minuti, cottura molto al dente e poi scolo senza però eliminare del tutto l’acqua.Riaccendo il fornello su cui staziona la padella con la crema dentro, trabocco la pasta, saltatina qui, saltatina lì, et voilà, sono pronto.

Dispongo la pasta nel mio solito e triste piatto Ikea, aggiungo i pinoli tostati e inumidisco con un filo d’olio.

Sin dalle prime forchettate, il mix di sapori si rivela azzeccato. La punta dolce della cannella, come pensavo, smorza l’irruenza acida del caprino e la sua punta speziata, della cannella, è sorretta dalla nota tostata dei pinoli. Inoltre, ben si sposa con le melanzane, che hanno assorbito la flebile ma seppur presente sfumatura dell’aglio. È un primo piatto estivo e, nonostante tutto, delicato.

Il Disconsiglio: se c’è un abbinamento sonoro migliore di un bel discone di space-rock, dove le chitarre si dilatano come una spezia e i contrasti tonali si incastrano come piani di diversi sapori, ditemelo. Però il garganello, con una crema del genere, non può fluttuare solitario senza un giusto accompagnamento. Capolavoro sotterraneo del post-psych-rock, Bardo Pond e Roy Montgomery in conciliabolo: Hash Jar Tempo, Well Oiled, annata 1997.