Oh, quanto mi manca Vic Chesnutt. Tantassai. Non ricordo un suo disco che, giunto a un punto, m’abbia indotto a dire a me e ai settantré altri me Che Palle Mettiamo I Meshuggah Per Ripigliarci. Mai.
E dire che malessere nei suoi lavori ce ne sta a secchielli, specchio fedele di una vita interiore funestata dall’incidente stradale nel 1983 che lo abbandonò su una sedia a rotelle.
Alcol e droga ne hanno costellato l’esistenza e i suoi testi fragili ma nel contempo orgogliosi cantano l’afflizione di un individuo che ha pagato a caro prezzo il conto presentatogli dal destino.
North Star Deserter è il suo penultimo album. È il 2007. Sulla copertina campeggia una colomba trasfigurata e le 12 tracce contenute sembrano volersi librare in cielo per scrollarsi di dosso il peso dell’esistenza. Vic rinuncia agli orpelli e agli arrangiamenti che avevano reso Ghetto Bells un album complesso e corale.
Scarno , asciutto, umbratile, intimo, ogni nota lascia trasparire l’ormai irrefrenabile discesa agli inferi di Vic, prossimo a farla finita, come accadde in passato.
Voce e chitarra classica, bastano solo questi due elementi al Nick Drake contemporaneo per suggellare l’ennesima prova di immenso talento. In soli due episodi irrompono escorianti chitarre elettriche e batteria (l’odissea di Debriefing, il capolavoro Everything That I Say), il resto è un continuo ondeggiare sulla marea della malinconia, pesante (Glossolalia, Fodder On Her Wings) o leggera (You Are Never Alone) che sia.
Due anni più ardi arriva At The Cut, Vic tenta di nuovo a farla finita e stavolta ci riesce. Il giorno di Natale del 2009 la sua agonia finisce.
Se scrivo solo un’altra riga su Vic scoppio a piangere. Seriamente. Quindi chiudo qui l’introduzione alla ricetta di questa settimana e m’addentro nella selva oscura dei passaggi. Un attimo che mi soffio il naso.
Bene, ci sono.
Il piatto di oggi è una sinfonia di sapori, ve lo dico. Un concerto di note saporite che si compenetrano e copulano e fanno cose sconce senza condom con le papille gustative che, come ben saprete, hanno un po’ la tendenza a organizzare ammucchiate. Scostumate.
Ho partorito il piatto partendo da una coppia che continuava a riproporsi alle mie sinapsi, di giorno, di notte, in qualsiasi momento della mia recente vita: scampi e pesca. Pesce e frutta, come negli anni ’80.
Così, mentre mi estraevo il cerume dalle orecchie con uno dei sette bracci di un candelabro rubato a un antiquario mi s’è illuminato il prepuzio creativo e alla strana coppia ho presentato il basilico, che ha preso così parte alla festa. Tempo fa feci un’emulsione con solo olio che mantenne vivo l’amaro delle foglie: ho pensato che fosse questa la via giusta per inglobare il basilico nella ricetta, in modo da contrastare la dolcezza della pesca.
Un ultimo tocco? Toh, i pistacchi, non salati, non tostati, delicati.
Oh, ora che ho completato il mosaico, come direbbe Mosè mentre giocava a briscola a mazzi con gli egiziani, posso passare a narrarvi come ho alitato la vita – ma solo dopo essermi messo un centinaio di mentine in bocca – a questo Risotto con scampi, pesca saturnia, pistacchio ed emulsione di basilico.
Titoli di testa: gli Ingredienti (per 4 sagome umane):
– 400 g di riso carnaroli
– 12 scampi freschi
– 4 pesche saturnie
– 15 g di foglie di basilico
– 8 ml di olio extravergine d’oliva
– 20 g di pistacchi interi
– 1,5 l d’acqua
– 2 carote
– una cipolla
– 2 gambi di sedano
– 4 foglie di alloro
– uno scalogno
– burro chiarificato
– mezzo bicchiere di brandy
– sale fino
– pepe (se volete ma sconsiglio)
Il primo atto prevede la pulizia degli scampi perché con gli scarti ci faccio il fumetto. Scippo le chele, li denudo del carapace, li ghigliottino tagliandogli la testa, resta il piciollino nudo e crudo a cui pratico una leggera incisione sul dorso per estrarre il budello.
Teste, chele e carapaci finiscono dritti nell’acqua fredda colata dal rubinetto in una pentola. Guarda un po’, ci stanno già anche sedano, carota, cipolla e alloro. Aziono la vampa, porto a ebollizione, in mezz’ora ho il mio fumetto, non quello di Tex Willer. Aggiusto di sale.
Prima del risotto preparo tutto il resto. Nel mortaio ci lancio i pistacchi e li pesto. Ottengo una granella.
Dopo un breve processo sommario, condanno le foglie di basilico a una reclusione nella torre del mio frullatore. Le inondo d’olio extravergine d’oliva come facevano i cinesi in una di quelle vecchie torture e aziono le lame. Fottetevi foglie di basilico, rilasciate la vostra cazzo di clorofilla, insaporite l’olio. Fateci all’ammore. Ecco, ho l’emulsione con l’olio che ha assunto gli umori basilicatesi. O basilichici. O del basilisco. Vabbè, ciao
Se i miei cari lettori me lo concedono, io procederei con la creazione del risotto. Trito lo scalogno e lo soffriggo nel burro chiarificato che si sta già dipanando sulla superficie del mio tegame di rame stagnato. Aggiungo il riso e lo tosto, sfumo con mezzo bicchiere di brandy e poi passo all’esondazione del brodo, che piove addosso al riso in generose mestolate. In 17 minuti sarà pronto.
Calcolo quindi bene i tempi per sbucciare e tagliare a dadini le pesche altrimenti s’anneriscono e mi viene la psoriasi nervosa. In effetti potrei acidularle con succo di limone ma non voglio nessuna sfumatura citrica nel piatto. Così eseguo al pelatura-cubettatura e 2 minuti prima di concludere la cottura del riso, scatafotto le pesche nel tegame a cuocersi un po’, a disfarsi un tantinello.
Spengo la fiamma, aggiusto di sale, metto una manciata di pistacchi e manteco con un po’ di burro. Non m’interessa ottenere l’effetto “a onda”, ne metto davvero poco.
Faccio risposare un minuto, lo stesso arco di tempo di cui necessito per scottare gli scampi appena massaggiati con un filo d’olio extravergine d’oliva in una padella incandescente e senza grassi aggiunti.
Bene, posso impiattare mettendo il riso nel fondino del mio sontuoso piatto a cappello di prete, una spolverata di pistacchio, tre scampi incrociati come un tetris e qualche goccia di emulsione di basilico sparsa qua e là. Il sapore globale tende al dolciastro ma appena arriva l’olio-basilicato, puff, una leggera e piacevole brezza amarognola accarezza il fondo della mia lingua. Che è un po’ come limonare con me stesso. Quasi.
Stay tuna
– Il Disconsiglio: l’abbinamento giusto è un disco soave e dagli equilibri gracili, che non rinunci mai a sottolineare le amarezze insite nello spirito umano, ovvero un Gillian Welch, The Harrow & The Harvest, annata 2011