Oggi non c’ho voglia di parlare di musica nonostante avrei qualcosa da dire sui recenti lavori di Raime e, soprattutto, Gojira, due discazzi incredibili, il primo feroce e inquietante figlio d’un minimalismo abrasivo, il secondo apice d’un percorso evolutivo intrigante il cui risultato sono 10 canzoni in perfetto equilibrio tra melodia e potenza.

No, siccome oggi vi parlo delle più famose palle di riso fritte e ripiene che la Via Lattea e relative traverse conoscano, intendo andare a capo chino come un ariete e dirvi che, francamente, la questione del sesso di ste palle qui m’ha frantumato i cabbasisi.

Ma cosa sto farfugliando? Be’, miei cari follouà, parlo di Arancini o Arancine.

Sono di Caltanissetta, centro assoluto della Sicilia, sul cocuzzolo di una collina distante quasi un’ora da qualsiasi spiaggia e sotto l’influenza linguistica palermitana: da me si chiamano Arancine. Ho però vissuto 6 anni a Catania e lì la nomenclatura maschile ha preso il sopravvento nella mia vulgata.

Ora, in ogni dove leggo gente che s’insulta per ‘sta questione, così come sulla forma, se ci va o meno lo zafferano, se il ragù di fa coi pezzi di carne o col capuliato, se la panatura la fai con l’uovo o acqua & farina.

Signori miei: rilassatevi 5 minuti.

Per quel che mi riguarda, le cose buone non sono per forza quelle chiamate col nome giusto ma quelle fatte bene. Arancine o arancini che vogliate chiamarli se la panatura è permeabile o moscia come l’uccello di un Teletubbies a riposo, se il riso è cotto con la merda del dado o scotto ed è una poltiglia indecifrabile, se il ragù è troppo liquido, se insomma vengono meno i dettami cardine che sanciscono la corretta esecuzione della ricetta, quella sì che è la giusta causa che autorizza a consegnare quattro ceffoni al reo bastardo che profana la Palla di Riso.

Il resto sono solo: Chiacchiere.

Detto ciò, dismetto i panni dell’Accademico della Crusca Di Pane e mi riappacifico con tutti voi, guerrieri linguistici della West e della East Coast della Trinacria. Per par condicio, tolgo l’ultima lettera alla parola incriminata, ci ficco un accento tonico e vi offro la ricetta di oggi, ovvero Arancìn al nero con ripieno di seppia, ‘nduja e asparagi.

Cazzo, ho profanato il ripieno. I puristi si stanno staccando la pelle di dosso come San Bartolomeo al martirio, u’ sacciu. Mancu U’ Ragù Ci Misi Stu Figgh’i Sucaminchia! Chi Fa, Nun Ti Piacivanu l’Arancini O’ Burro, Crastu Ca’ Si?, nuovi e angoscianti cori di dissenso si levano dalle viscere della Terra.

No, sono l’Uomo Senza Tonno e faccio come minchia mi pare, se non vi piacciono: me le mangio io, non si butta nulla qui.

E, dato che è lungo e complesso, voglio raccontarvi il processo di coniazione dell’Arancìn come un’avvincente gastro-Eneide, un racconto papillo-gustativo che si tramanda nei secoli dei secoli.

Arancini al nero con seppia, nduja e asparagi

Prima di narrarvi le gesta di eroi ed eroine, tossici e cocaine, vi presento gli Ingredienti (per 16 Arancìn, che potrebbero quindi valere per 4 persone)

Per il riso:

– 500 g di riso originario (corrispondono a 8 tazzine da caffè)
– 2 carote
– una cipolla bianca
– due gambi di sedano
– una testa e una lisca di triglia (ma usate, se l’avete, qualsiasi altro pesce per un fumetto)
– 1,5 litri d’acqua
– sacche di nero di seppia

Per il ripieno:

– 250 g di seppie
– 30 g di ‘nduja di Spilinga
– 10 asparagi
– mezzo bicchiere di vino bianco fermo (ho usato della Malvasia)
– 2 cucchiai di olio extravergine d’oliva

Per la panatura:

– 110 g di farina 00
– 200 ml di acqua fredda
– pangrattato (a occhio)

Per il resto:

– olio di semi d’arachide
– sale

L’Arancineide

Capitolo I: Genesi del Brodo Primordiale

In quel tempo, una testa e una lisca di triglia congelati guizzarono fuori dal freezer dell’Uomo Senza Tonno.

‘Minchia fate qui fuori? domandò l’Uomo Senza Tonno (da qui in avanti UST) appena li vide circolare a pinna libera
Un usignolo surgelato ci ha detto che dobbiamo fare il fumetto di pesce che servirà per cuocere il riso dell’Arancìn, risposero i due mattacchioni
Ah già, avete ragione, rammentò l’UST annuendo mentre si toglieva le ultime due caccolette dagli occhi

Così la testa e la lisca opportunamente scongelati finirono in un pentolone con 1,5 litri d’acqua insieme a carote, sedano e cipolla opportunamente lavati, sbucciati e tagliati. La fiamma s’accese, l’acqua bollì, il brodo fu pronto, il sale salò. Tutto in 30 minuti.

***

Capitolo II: L’Inchiostrosa Battaglia tra l’UST e Il Cefalopode

Sguatwashwaaaa! questo fu lo schiamazzo raggelante che un Cefalopode, più comunemente conisciuto come Seppia in tutti i mercati del pesce, emise alle spalle dell’UST che aveva appena fatto il fumetto di pesce
Ora ti piglio e ti scippo gli arti grazie all’arte di scippare gli arti, disse tra i denti l’UST con sguardo di sfida come fosse Daisuke Jigen

E partì l’atavica battaglia tra i Leviatano e il Capitano UST.

La Seppia emise un vichingo spruzzo di inchiostrò che ricoprì l’UST da capo a piedi e i tentacoli del feroce mostro marino si contorcevano come un Kraken e ghermirono il Nostro Eroe per una gamba, poi per l’altra, poi per un braccio, poi per l’altro, poi finirono braccia e gambe dell’UST e la Seppia Gigante ghermì una sedia.

Ma l’UST, anche se non poteva sparare inchiostro, la sera prima aveva fatto scorte di legumi, così emise una colossale detonazione dal suo antro infra-chiappale che stordì la Seppia che lasciò gli arti che al mercato mio padre comprò.

Ormai in fin di vita, l’UST prese la Seppia e recitando versi di Montale le asportò l’osso (e la Seppia urlò di dolore!), le viscere (e la Seppia ruttò!) e tolse la sacca dell’inchiostro facendo attenzione a non romperla. La depose su di un piattino, la sacca. La Seppia inerme e ripulita giaceva sul tagliere. Calò il silenzio. Da lontano, un coro di sirene intonava una trenodia.

***

Capitolo III: Chicchi che S’Abbeverano Alla Sorgiva del Brodo Primordiale

Quarta regola dell’Arancìn: se usi il dado, mannaggia a te ti devono cadere i denti e le gengive e anche tre quarti di sopracciglia, recitava il pamphlet d’ammissione al Rice Club che l’UST teneva tra le dita, stanche dopo la battaglia.

Si grattò un testicolo e, convinto a non usare il dado, decise di cuocere il riso originario, dal chicco piccolo e colloso e adatto per la preparazione dell’Arancìn, facendo le Proporzioni.

Una tazzina da caffè di riso per ogni due tazzine di brodo (già filtrato)

8 tazzine da caffè corrispondono a mezzo kilo di riso. 16 tazzine da caffè corrispondono a un litro esatto di brodo. Che culo!

Così l’UST portò a ebollizione il brodo e versò il riso cantando Closer dei Nine Inch Nails. Questa operazione permise all’UST di ottenere un riso perfettamente colloso e pieno d’amido, lo stesso procedimento che si fa per il sushi.

Aggiustò di sale e, coi chicchi ancora in pentola, versò la sacca (in verità erano due) di inchiostro di Seppia. Amalgamò per bene affinché tutto si colorasse, aggiustò di sale e stese il riso su di una teglia che un tempo fu di Agamennone. Il riso abbassò la sua temperatura corporea. Le aquile volteggiavano lussureggiante sui picchi delle montagne, da qualche parte. Non a Milano.

 

***

Capitolo IV: Di Come l’UST Fece Scempio della Seppia e La Unì Ad Altri Strani Individui

Rinvigorito dalla vittoria ottenuta grazie a un tumulto intestinale, l’UST prese il cadavere della Seppia, lo mise a testa in giù e lo profanò sminuzzandolo, testa e diabolici tentacoli.

Bussarono alla porta. Avanti! disse l’UST

Senta messere, ci hanno detto che qui si scrive La Storia dell’Arancìn, è vero? chiesero 10 asparagi vaganti
Come no, rispose l’UST alzando un sopracciglio
Bene, allora cosa ne pensa se che a noi nell’Arancìn non ci vuole usare mai nessuno, e quasi piangevano gli asparagi proferendo siffate parole
Cari, qui siete nel posto giusto, disse con tono paterno il Nostro Eroe

Così, tagliati a pezzetti, gli asparagi furono sbollentati consensualmente per circa 4 minuti, poi scolati e passati sotto acqua fredda.

Ma dal frigorifero adiacente qualcuno grugnì. Chi cazzo è, si domandò l’UST. Aprì la porta e la ‘nduja di Spilinga lo guardava con occhietti ciccioni e voluttuosi. Non parlando la lingua del Nostro Eroe, poteva solo farsi capire emettendo grugniti in re maggiore e grufolando tra un primosale e i cetrioli. L’UST la prese e la portò vicino ai fornelli dove in una padella due cucchiai d’olio extravergine d’oliva sfrigolavano e accolsero prima la Seppia squartata, poi mezzo bicchiere di vino bianco, dopo 5 minuti la ‘nduja e un inuto dopo gli asparagi. in 7-minuti-sette il Ripieno fu pronto.

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Capitolo V: Trasmutazione della Materia, Da Riso Steso a Palla di Riso 

Venne il momento in cui l’UST dovette dar forma all’Arancìn. Il respiro si fece pesante, le dita tremavano come foglie al vento, le ginocchia scricchiolavano, i piedi esploravano il mondo con le scarpine Chicco.

Si sedette e mise accanto a sé una ciotola d’acqua fredda, utile a umettarsi le mani affinché il riso colloso come il Bostik non s’attaccasse a tipo sanguisuga.

Prese con una mano un pugno di riso, lo appallottolò. Poi la suddetta mano la mise a incavo e con il pollice della mano opposta (troppe ripetizioni, qualcuno chiami un editor!) iniziò a scavare formando una piccola fossa ma stando attento a non rompere i bordi.

Prese un cucchiaino di Ripieno e lo adagiò all’interno della fossa. Chiuse i bordi affinché la farcitura fosse ben sigillata, se il riso non era sufficiente, ne prendeva un altro po’.

Così fece per tutte le palle. Al termine, lasciò riposare le sfere per farle incollare ulteriormente.

Dalla finestra penetrò una folgorante lama di luce. Un inebriante canto d’angeli avvolse l’UST.

***

Capitolo VI: La Rivestitura

Ormai l’UST non aveva più limiti, oltrepassò le Colonne d’Ercolesterolo pieno di coraggio.

Ma un dubbio lo attanagliò. Usare l’uovo per la panatura o fare una pastella con acqua e farina affinché sia ancora più croccante, ancora più nerboruta, ancora più stocazzo?

Deliberò per la seconda opzione.

Prese 200 ml di acqua fredda e vi setacciò sopra 110 grammi di farina 00. Con una frusta amalgamò con decisione affinché nessun grume prendesse parte all’epopea e lasciò riposare per una decina di minuti.

Steso il pangrattato su una superficie orizzontale meglio conosciuta come tavolo, prese le Palle, non le sue ma quelle di riso, le passò nella pastella e poi nel pangrattato in modo che l’intera superficie fosse coperta.

Le palle riposarono per 30 minuti.

***

Capitolo VII: Come La Rivestitura Divenne Livrea Impenetrabile

Danzante di gioia e vestendo un tulle da primoballerino, l’UST non vedeva l’ora di ingollare tutto quel ben di Dio.

Ma, come come cantavano gli antichi poeti greci, se prima non le frigge ste palle non vanno da nessuna parte.

Rimembrando i consigli dei saggi scrittori, riempì una pentola d’olio di semi arachidi, la mise su una fiamma vivace e non appena fece il test schizzo-d’acqua-olio-scoppietta, iniziò a immergere una per una le palle, non le sue, ma quelle di riso, nell’olio bollente che sembrava fornito direttamente dalla Gehenna.

L’applauso scrosciante dell’olio accoglieva festante ogni palla che si rotolava nel grasso saturo e irrigidiva la sua pelle pangrattatica, imbrunendosi e zampillando amore.

Fuoriuscite dall’olio grazie all’ausilio di una schiumarola, le palle si presero un attimo di relax su della carta assorbente per fritti, era come se fossero state partorite a una nuova vita, richiedevano tempo per riflettere su cosa avrebbero fatto da grandi, ignare della sorte che le attendeva.

***

Capitolo VIII: Come L’UST Distrusse I Piani Futuri delle Palle Di Riso A Morsi

Felici e contente d’essere approdate nel migliore dei mondi possibili, le Palle, ormai divenute Arancìn, erano debitrici al loro creatore. L’UST le portava al parco, faceva loro studiare la distribuzione della coltivazione di barbabietola da zucchero nel mondo, le portava alle mostre.

Ma un po’ come Crono-Saturno, un giorno l’UST andò fuori di palato e nottetempo, s’introdusse nella stanza dell’Arancìn, ancora croccanti e appena salate in superficie e senza neanche drogarle per non far loro sentire dolore, CROCK!, le fece fuori una per una. E ad ogni morso lo scroscio arrivava fino a Plutone e si disperdeva nella notte, spegnendosi in un ineffabile eco tra le stelle.

Fine

Stay tuna